‘Maria Micozzi’ – di Pier Luigi Senna

‘Maria Micozzi’ – di Pier Luigi Senna

24 Novembre 2014

MARIA MICOZZI

e la poetica della complessità

Procedere, progresso, processo. Non è una semplice assonanza a legare tra loro queste parole: di là della fonetica, esse hanno una radice semantica comune, e presentano quindi affinità di senso, contiguità di significati. Tra le molte accezioni di “progredire” è anche quella di “camminare”, un’esperienza tanto comune da farci dimenticare che si riferisce ad un’attività tutt’altro che semplice. La stazione eretta non è per nulla naturale, per dei mammiferi, e camminare implica pertanto una continua ricerca d’equilibrio tra avanti e indietro, destra e sinistra: la ricerca di un punto armonico tra combinazioni d’opposti.

Perché questa bizzarra divagazione introduttiva? Perché analogo è il modo di procedere (appunto) di Maria Micozzi. La quale, prima ancora d’essere una grand’artista, è un’intellettuale, una pensatrice, una ricercatrice. Anche qui è necessario chiarire, intendersi sui termini. E’ ricercatrice non perché faccia parte di una squadra di specialisti impegnati a lavorare attorno ad un progetto, bensì, propriamente, perché cerca delle risposte, o perlomeno si pone continuamente delle domande, al punto di definire se stessa una domanda. Cerca la verità, o la conoscenza, o forse la sicurezza che da esse può derivare, aspirando a padroneggiare il caos di cui siamo parte. Sta di fatto che le sue ricerche, assidue, spaziano dalle scienze esatte alla filosofia, alla semantica, alla semiologia, alla linguistica, alla filologia comparata; dall’antropologia culturale alla sociologia, dalla logica alla psicologia e alla psicanalisi, intesa sia come tecnica terapeutica sia come strumento per scandagliare le zone d’ombra, ma badando bene a non farne derivare una realtà alternativa, o di secondo grado. I frutti delle sue elucubrazioni, che non sono speculazioni astratte bensì esperienze esistenziali autentiche, prendono forma, s’incarnano in opere d’arte: dominate da una ferrea unità di composizione, articolate come un organismo, in cui ogni frammento è autonomo, opera compiuta in sé, eppure parte di un tutto, che generalmente assume l’aspetto di un’unica, affascinante installazione.

A questo punto la smania classificatoria celata nel fondo di ciascuno di noi può gioire nel pretendere d’aver trovato un’etichetta da affibbiare a quest’artista dalla spiccatissima individualità: la sua è arte concettuale. E’ vero, in parte: Maria Micozzi è una concettualista, ma a modo proprio. Pur accettando il presupposto che ogni procedimento artistico è prioritariamente un atto mentale, quanto di suo è sotto i nostri occhi non ha molto a che vedere con i colpi di genio che fanno scrivere su un pannello le parole “blu” o “cavallo” in sostituzione di un’estesa campitura monocroma, o di una scultura o un dipinto raffigurante un destriero, con la motivazione che l’arte è solo una forma di linguaggio equivalente ad altri; o con il proporre in mostra una tazza da tè, accanto ad un cartello su cui spicca la parola “tazza” ed alla fotocopia della pagina di dizionario che ne riporta le definizioni, per poter parlare di “echi semantici”; o con l’esporre incorniciati i fogli d’appunti in cui vengono progettate opere d’arte, la cui eventuale realizzazione si demanda ad altri, perché l’atto creativo consiste nell’idea, non nell’esecuzione. Maria Micozzi non si pone il problema della buona fede altrui: semplicemente si appassiona alla realizzazione delle sue opere, dando la stura alle sue straordinarie abilità tecniche, e alla sua passione per i materiali, spesso poco canonici; così come per necessità interiore s’impegna totalmente nelle avventure non solo mentali delle sue speculazioni euristiche. Così come non bada troppo alla pretesa di chi teorizza che lo scopo dell’arte consiste nella definizione dell’arte: tautologici e autoreferenziali, certi concettualisti puri sembrano voler fare arte contemplando il proprio ombelico. No, l’interesse principale di Maria Micozzi, da cui muove tutta la sua produzione, è esterno: prende spunto dall’idea ossessiva della complessità del reale, che cerchiamo di conoscere, e di controllare, senza riuscire a sottrarci alla gabbia dei dualismi, delle dicotomie. Ci muoviamo come se il nostro percorso fosse un susseguirsi di bivi, mentre siamo sperduti in mezzo al deserto. Ci serviamo di schematizzazioni riconducibili ad un’ottica binaria: zero/uno, acceso/spento, sì/no, bianco/nero. Ma la realtà presenta mille varianti, e tra il bianco ed il nero si situa un’estesissima gamma di grigi. Un’analisi frantumata, per processi dicotomici, è fuorviante, perché fa perdere il senso della totalità. Perché il tutto è sempre più della somma delle componenti; perché “d’ogni verità anche il contrario è vero”; perché nell’interezza del reale, della vita, le opposizioni sono spesso coppie di forze dinamiche, mentre si pretende di negare le relazioni esistenti tra i contrari, e d’isolare una componente, scambiandola per il tutto. Non sempre la sineddoche funziona: non sempre è applicabile l’idea della pars pro toto. Anche in arte si può incappare in abbagli di reificazioni, e scambiare per lo stile un elemento di quello stile. Succede anche a Maria Micozzi, la cui straordinaria abilità nel dipingere inserti figurali neomanieristi (corpi michelangioleschi di cui sembrano tangibili la sericità della pelle, o la granulosità del pannicolo adiposo sottostante; la lucentezza della buccia dei frutti, la sofficità delle piume, il lucore prezioso di un anello e della pietra che vi è incastonata…) spingono molti estimatori a identificare in queste abilità l’intero suo fare arte, ignorando le formule di logica simbolica, le annotazioni scritte, gli inserti polimaterici variamente sagomati, spaghi, nodi, pezzi di metallo o di tessuto, i vuoti e i rattoppi, che pure popolano i suoi lavori, sempre a cavaliere tra pittura e scultura, astratto e figurativo… Il punto è che all’artista non interessa teorizzare o testimoniare una corrente artistica, bensì comporre strutture formali organiche, che richiamino il problema dell’estrema complessità del reale, in cui l’incontro/scontro tra due ordini, anziché attraverso conflitti dicotomici, può tentare una possibile soluzione con la ricerca di un metaordine, di un senso del rapporto, ad un metalivello che li riassorba, conciliandoli.

Un illustre concettualista aveva osservato che l’opera d’arte, in quanto messaggio visivo, può essere polisemica, ed offrirsi al gioco delle interpretazioni, in cui una prevalenza di significato è di solito assegnata dal contesto culturale; pansemica, quando, in particolare dopo Mondrian e Kandinsky, l’immagine, non più figurativa, si presenta aperta a tutte le possibilità d’interpretazione; monosemica, come un diagramma o un simbolo matematico, quando l’immagine espressiva viene abbandonata per lasciare campo libero ad immagini razionali, univoche, definite come i termini scientifici, leggibili ad un solo livello semantico. Questo fine perseguito da concettualisti puri non pare condivisibile da Maria Micozzi. A lei sembra piuttosto applicabile una riflessione di Jung: “Ciò che è univoco, che non ha contraddizioni, è unilaterale e quindi inadatto ad esprimere l’inafferrabile”. In fondo è nella natura stessa dell’arte la ricchezza dei portati, ed è nel carattere di Maria Micozzi perseverare nelle sue ricerche con tutta se stessa, forse proprio all’inseguimento dell’inafferrabile. Ragion per cui… di fronte alle sue opere, e alla sua poetica della complessità, ciascuno è invitato a cercarsi una propria possibile lettura, rapportata a se stesso, o più d’una.

Testo redatto il 14/6/2006 sulla base della presentazione a voce del 13/6 all’inaugurazione della mostra “Cerchi e secanti” alla Galleria Miniaci di Milano.

MARIA MICOZZI

LA CONVERSAZIONE

Senna – L’Arte è intrecciata al contesto socioculturale di un’epoca: ne è anzi la migliore espressione, la più diretta e completa. Non ha senso pretenderne l’isolamento: le torri d’avorio sono false. Tuttavia in pochi artisti ciò è tanto evidente quanto nella sua opera. A che ne è dovuta la ricchezza semantica, la polisemia di tono interdisciplinare?

– Micozzi – Sono d’accordo: l’arte è certamente legata a ciò che viene chiamato contesto socioculturale e credo che lo debba essere in un rapporto di tipo sovrastorico.

Tra l’altro se si parla di linguaggi, si parla di significati e questo sposta il problema dal linguaggio alla cultura che lo vede espresso, e che ne spiega il significato.

La nostra cultura occidentale già nei suoi atteggiamenti originari magico-filosofici e prescientifici ha sempre privilegiato, seppure non senza conflitti, l’aspetto chiaro ed olimpico della conoscenza razionale (intendendo la conoscenza come un cammino praticamente rettilineo verso la verità “vera”), su tutti gli altri aspetti di vita. I suoi allora giovani scheletri chiusi nell’armadio parlavano invece di strutturali paure per il Vuoto (un vuoto inteso come assenza di riferimenti fisici conosciuti e riconoscibili) e per l’Oscuro, visto come il luogo dell’oltretomba, il luogo della Morte.

In alto, alla luce, il miracolo dell’ordine razionale, la sicurezza di ciò che è “chiaro”, quello che Cartesio chiamerà chiarezza del soggetto entro i propri confini concettuali, lasciando nel fondo nascosto la dionisiaca voglia-paura dell’ombra, quel rischio dell’inconoscibile che non lascia definire i confini tra la vita e la morte.

Alto e basso, chiaro e oscuro… categorie antitetiche strutturano l’Immagine del Mondo che è alla base della nostra cultura.

Purtroppo privilegiare la divisione del Tutto in Parti, come fondamentale strumento operativo di conoscenza conduce a comportamenti che, a scadenze più o meno brevi, non possono che nuocere alla vita stessa. La vita può essere vista come un sistema complesso, e pertanto può essere fatalmente colpita da tutti i meccanismi antisistemici: è un complesso gioco d’equilibri, strutturalmente basato sulla capacità di entrare in continua relazione, espressa dagli elementi componenti. E’ una rete di comunicazioni che rimanda sempre un messaggio al parlante. Questa comunicazione composita articola i contatti secondo una legge di non-accumulo che premia la diversità e il mutamento; anche la stessa casualità diventa parte armonica in un ordine più complesso.

Dopo questa specie di premessa posso provare a rispondere al perché del mio linguaggio che lei ha definito polisemico.

Ebbene, se la mia locazione anagrafica è in questa cultura così ordinata per dicotomie tanto attenta ad evitare le “contaminazioni”, l’Immagine del Mondo che ha prodotto il mio vissuto e che, contemporaneamente, è stata prodotta dal mio vissuto, è fondamentalmente diversa. Ad un certo punto della mia esistenza ho avvertito che le leggi potevano essere tante quante sono i popoli, nessuna l’unica vera, tutte alla ricerca di ciò che sia possibilmente giusto. E’ nato allora il mio modello di libertà e di rispetto per la libertà, ed è nato il dolore per il sopruso; ho sentito che alcuni popoli non credono che comunicare sia il modo ovvio di confrontare le proprie diversità. Ho sentito che ero dove non si è competitivi sul problema da risolvere, ma contro chi è sentito come problema: il problema si risolve eliminando il nemico. Mi sono trovata in una gabbia.

Era come se avessi perso la possibilità di creare percorsi che servano ad esplorare il parziale… e l’intero.

Il linguaggio polisemico è il linguaggio dei miei viottoli curvi, sempre possibili e mutanti, che la mia “infanzia” congenita ancora continua a cercare.

Io, al mio interno, sento un’astrazione metadisciplinare, poi non so cosa esprimo.

– Tutto ciò spiega comunque il fascino dei suoi lavori, che personalmente trovo di grandi raffinatezza e originalità, di vertiginosa valentia tecnica… e un poco inquietanti.

C’è una lontana eco d’esperienze surrealiste e simboliste, ma anche del teatro dell’assurdo e della crudeltà… Che altro ancora?

– Cerco continuamente le corde per esprimere la complessità e l’intero, ma ovviamente essendo io dell’intero solo una parte, non posso, per esprimermi, che usare “parti”.

Lei ha tracciato le direzioni di alcune angolature. La realtà dell’inconscio è per me certamente ineludibile, anche se contrariamente ai surrealisti non l’assumo come unico riferimento. Così è ineludibile la valenza evocativa e simbolica di tutte quelle relazioni linguistiche (dato che l’arte è un linguaggio) che possono andare sotto il nome di metafora, di metonimia, di sineddoche, d’antifrasi, d’asteismo, e d’ossimoro.

Sul mio piano dell’assurdo si recita il paradosso di una vita sistematicamente complessa che una cultura potente come la nostra soffoca con l’imposizione di regole antisistemiche. Il teatro dove questo vuole essere Verità non può che ruotare ambiguamente attorno alla crudeltà. La crudeltà del carnefice che per esistere deve partorire la vittima e la crudeltà della vittima che per esistere deve partorire il carnefice.

Mi chiede che altro ancora… Non so cosa si possa trovare nelle mie opere: in tutta me stessa c’è sicuramente la sensazione che quando si è costretti a vivere un paradosso esistenziale (come il predominio della parte sul tutto) e ne è impedita, da ricatti affettivi, l’uscita, il mare della ribellione è profondo e vasto e sempre in burrasca.

In altra occasione mi piacerebbe molto affrontare a sé il problema del paradosso.

– Perché no? Sarebbe d’immenso interesse. Per il momento riportiamoci ad un discorso più strettamente artistico: ferma restando l’estrema originalità del suo linguaggio, quali parentele – o affinità – ritiene legittimo riconoscere? Sono stati ipotizzati Bosch e Brueghel, i manieristi, i simbolisti…

– Non ho frequentato molto la storia dell’arte se non per gli studi liceali. Per il resto, l’amore che ho sempre sentito per questi linguaggi non rispondeva ai progetti che la mia famiglia aveva fatto per me, con tanto affetto e direi anche con tanta trepidazione, ma purtroppo con non meno determinato convincimento d’essere nel giusto. Il tutto si è ripiegato dentro di me in una sorta d’autarchia adolescenziale e universalistica nell’attesa del “simile”.

Il mondo di Bosch l’ho incontrato soprattutto nelle pieghe dei racconti e nelle raccomandazioni che ti vengono date per tenerti buona da piccola, e t’ingigantiscono le immagini della paura.

Il manierismo per me è soprattutto l’impossessarsi di una “forma collettiva” per masticarla e ripartorirla con tutti i sogni dei propri metaboliti. Il simbolo per me è esprimibile solamente dalla relazione in cui certi termini si pongono in un dato momento. Nessuna parte è di per sé simbolica: può esserlo solo il rapporto tra parti. Ed io amo esplorare queste sfumature che cambiano i significati. Ma di là dal fatto che il linguaggio dell’arte sia stato per me una solitaria esperienza interiore e mi sia dedicata soprattutto allo studio delle scienze astratte e delle scienze umane, è certo che io sono anche un prodotto della cultura che ho attraversato, e nella selezione può essere stata fissata anche qualche immagine con la quale, magari, non ho avuto più molte frequentazioni.

– E’ stata segnalata una componente scenografica nei suoi lavori di un tempo, giocati ancor più degli attuali sul crinale tra “bi” e “tri” dimensionalità: le tavolette, i veli, le impunture, le suture, i punti metallici…

E’ arbitrario accostarsi alle sue opere come a teatrini della mente, o dell’anima?

– I primi lavori, dopo il 1983, cercavano di trovare il senso della complessità (il senso che da sempre m’interessa esprimere) direttamente sul piano dell’illusione pittorica dove giocavo i rapporti e i contrasti; e da questo punto di vista è possibile potersi richiamare all’immagine del teatro come luogo della rappresentazione e della finzione.

Quest’immagine permette di segnare una certa correlazione tra diverse realtà: la realtà recitante e la realtà recitata. Ma nel procedere della mia ricerca sono stata poi attratta da realtà sempre meno canonizzabili: m’interessa comporre tutti quegli insiemi che diventano significanti semplicemente per la loro possibilità di relazionare in modo congruo elementi che sono intesi dissonanti nel contesto più vasto della Norma. Si può procedere all’infinito alla ricerca di relazioni significanti, sperimentando la pluralità infinita delle forme linguistiche che stanno per uno stesso tipo di rapporto.

L’elemento di un sistema non può mai conoscere il sistema che lo contiene: può avvicinarsi ad intuirne la natura, la realtà che potrebbe essere raggiunta solo procedendo per un’induzione infinita che tenga conto di tutte le realtà parziali, possibili.

Credo sia l’avventura più fantastica ricercare la propria consonanza con il Tutto e la natura di questo Tutto di cui si è semplicemente una parte.

Credo sia tentare, senza poterla varcare mai, la porta del Sacro.

– Scendendo dal tutto alla parte, posso sottoporle, per finire, una curiosità particolare?

Nelle sue opere sono ricorrenti figure femminili, rese con una minuzia lenticolare, evidenziandone le grinze e la grana stessa dell’epidermide, le pieghe del pannicolo adiposo… e tutte rigorosamente acefale.

Sono presenze inquietanti, tra il ricordo e l’allucinazione: stimolano riflessioni e quesiti. Qual è l’interpretazione autentica, dell’autore, di queste figure emblematiche e misteriose?

– Il corpo è il mio luogo della complessità. Il corpo è un insieme di parti che vivono la complessità riuscendo anche a comprendere l’elemento strutturalmente diverso della coscienza. Soprattutto è il luogo e il soggetto che genera altri soggetti, in ogni sua ombra, in ogni sua cellula è scritta, in un codice e con un ordine sconosciuti, l’alchimia del nascere, dell’esistere; la legge alchemica di tutto l’intero (umanità-viventi-pianeta-universo) che cerchiamo di capire per capirci. Forse lo stupore di questa vita così sfuggente alla conoscenza e così fonda e dilatata quasi in un andamento kantoriano, tanto splendida in questo suo essere un tutto che ci comprende e trascende, l’ho bevuto con il latte di mia madre.

E’ successo, come per ogni essere vivente capace d’apprendimento, quando ero in quella terra e in quell’eternità di tempo che hanno segnato i sensi del mondo.

Il corpo esprime una potenza primigenia che le espressioni del volto non possono dire; il volto è l’oggetto privilegiato delle censure, è la sede della parola, è più facilmente una risposta culturale alla cultura. Il viso, la testa, conoscono le cose che hanno apprese e le pensano vere; il corpo molto meno, è più ignorante di quello che accade nelle ore e nei giorni, ma sa quasi tutto di quanto è sopra il tempo.

Realizzata nel giugno 1994 e pubblicata in “Arte-cultura”, Milano, del luglio ’94.

MARIAMICOZZI

Note biografico-artistiche

“Ciò che è univoco, che non ha contraddizioni, è unilaterale e quindi inadatto ad esprimere l’inafferrabile”, asseriva Jung. Il linguaggio artistico, proprio perché consente la trasmissione di percezioni-intuizioni-visioni multiple, polivalenti, può sottrarsi ai limiti dell’univocità del messaggio, e tentare quindi di esprimere – e comunicare – l’inesprimibile.

E’ questo uno dei presupposti su cui si fonda il lavoro artistico di Maria Micozzi. Nata a Tolentino, in quel di Macerata, attiva da anni a Milano, Maria Micozzi è artista del tutto inconsueta, per sensibilità, mestiere, cultura. Studiosa di scienze esatte e di scienze umane, ha coltivato avidamente, per necessità interiore, filosofia, psicologia e psicanalisi, per approdare infine all’epistemologia. Del suo lavoro artistico (cui si affiancano le attività saggistica e poetica) si può ben asserire che è “colto”. Non perché riecheggi l’iconografia manierista, bensì perché affonda saldamente le proprie radici in un profondo e ricco sostrato di conoscenze ben metabolizzate, e di consapevolezza maturata fino a consentirle una visione estesa e approfondita del reale, e dell’esperienza umana in primo luogo.

Il “senso della complessità” costituisce il suo principale spunto tematico. Nella cultura di cui siamo parte tutto viene percepito come un insieme di dicotomie; la verità è inseguita attraverso frantumazioni e contrapposizioni. Ma il percorso umano non è paragonabile ad un sentiero che si biforca in continuazione: la condizione dell’uomo è piuttosto quella del disperso nel deserto. Le dicotomie sono miraggi, ostacoli da superare.

Tra le prime affrontate e superate da Maria Micozzi, è la contrapposizione tra conscio e inconscio. Del continuum che circonda la limitata zona rischiarata dalla luce della ragione, la nostra artista è ben consapevole. E si è abituata a scrutare nel buio. Non impiega soltanto la razionalità, né la comprime per lasciare dilagare l’inconscio: ha ampliato la propria capacità di cogliere la dinamica e i messaggi delle zone d’ombra. Per questo è improprio ricondurre al Surrealismo gli elementi iconici talvolta bizzarri o apparentemente incongrui che compaiono nei suoi lavori. Non ha, l’artista, abdicato alla razionalità: ne ha esteso i confini, s’è aperta a cogliere altri segnali, di cui è perfettamente consapevole. Segnali che vengono ad arricchire, con il fascino dell’ambiguità e della metafora, i suoi lavori, personalissimi, e di maestria rara.

La padronanza del disegno è perfetta, e l’uso del colore sapiente: per velature, partendo dal fondo scuro, all’antica. L’effetto è appunto quello di dipinti antichi, anche per le trasparenze, i bagliori di luce, la minuziosità alla fiamminga; ma del tutto nuova, inconsueta, è l’impaginazione. Immagini incomplete, o veri e propri frammenti iconici, di figure e di oggetti d’uso quotidiano, si articolano su supporti insoliti, come tavole modellate, strutture polimateriche, aggregazione d’elementi dalla varia geometria, con l’aggiunta d’interventi di gusto prettamente artigianale. La pittura vera e propria è eseguita con abilità tale che siamo richiamati di continuo a verificare la fondatezza o l’illusorietà delle nostre percezioni.

Non meno complessi sono i messaggi che ce ne pervengono: un nudo può presentarsi con sensualità oppure esporsi alla nostra ripulsa impietosa, una condizione esistenziale richiamata può denunciare il proprio dramma, ma può anche ammiccare ironicamente…

Il nudo, usualmente femminile, acefalo, è ricorrente nelle opere della Micozzi: un recente ciclo di dipinti su supporti multiformi e multimaterici, oggetto di una mostra itinerante in cui viene presentato attraverso installazioni, affronta il tema, per l’artista non ancora esaurito, della corporeità. Se la testa è il luogo della conoscenza, e quindi dell’accumulo culturale, se il volto è la sede della parola, e perciò anche della menzogna, il corpo è invece il luogo della sincerità disarmata, della potenza primigenia, della complessità totale, poiché è un insieme d’organi in grado di riprodursi e quindi di sopravvivere a se stesso, e che diviene misteriosamente sede, oltre che di funzioni e di pulsioni, anche di razionalità e di coscienza.

Infimo e sublime, caduco ed eterno, il corpo è dunque l’emblema di quel complesso giuoco d’equilibri dinamici che è la vita, l’emblema della sintesi degli opposti, il punto d’incontro – e di superamento – di tutte le contrapposizioni. Tra cui quella tra arte e pensiero.

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