Maria Micozzi

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‘Maria Micozzi: tra allusioni e illusioni’ di Nicola Nuti

Paradossalmente, oggi, che sono tutti artisti, nessuno dipinge più. E per trovare qualcuno che in Italia persegua dignitosamente quest’ingrata attività bisogna magari informarsi sui cataloghi delle mostre tenute all’estero,  o andare a scovarlo al mercato nero della sensibilità.

Anche Maria Micozzi, che in un paio di decenni di attività ha riempito il suo archivio di testimonianze, studi e consensi pubblicati dappertutto, ha trovato tempo fa un costante sostegno critico e soprattutto mercantile in Germania. Ma Micozzi non è l’artista che incontri a ogni vernissage, che ti corre dietro per farti vedere com’è brava, per vendere un paio di pezzi o comunque per strappare ogni pur piccola opportunità per farsi vedere. Piuttosto la trovi nel suo studio, una sorta di Wunderkammer, tra grandi sculture, tele e tavole dipinte, i libri, i colori e una miriade di oggetti con la quale ha instaurato un intimo dialogo.

Una risoluta e raccolta invenzione di  immagini, scelte e spiegate attraverso un lavoro insistente, con un fitto ordito d’impaginato e di colori, ecco come ci si presenta l’opera più recente di Micozzi: per questo non si può fare a meno di partire dalle ultime cose per riprendere il filo del discorso sul suo lavoro, che in questo modo si arricchisce di un rilievo completo, e si inserisce nel testo ancora aperto dell’arte italiana degli ultimi dieci anni, dal postmodernismo alla nuova figurazione. Ciò che di veramente importante ha conquistato ultimamente quest’artista, o almeno, ciò che si riesce a individuare in maniera più circostanziata è la complessità, la formulazione articolata di ritrovamenti memoriali, lirici, di una narrazione formale che ha con sé la consistente presenza di figure fisiche, il peso plastico dei corpi, senza essere figurativa in senso tradizionale, e che pure riporta tutto un intreccio di valori, un susseguirsi di congiunzioni legate a qualcosa di vissuto veramente, di pensato e di isolato nella rete inestricabile  delle nostre percezioni, fatte di quotidiano e di illusorio. Figure straniate, prive  della loro connotazione di “attanti”, e perciò di forte valenza simbolica: il corpo è un oggetto, uno scrigno, una pagina scritta d’esistenza. Figure che stanno insieme alle immagini formali, persino ai materiali eterocliti (spaghi, fili di ferro, trine, tessuti e carte) che le circondano, e anzi arricchiscono con le loro allusioni le altre espressioni precisabili, aumentandone il livello comunicativo.

Una pittura colta, precisa, sempre in bilico tra  memoria personale e simbolo, suscitazione emotiva e speculazione intellettuale, in cui la donna appare come una specie di entità inossidabile, misterica, ambivalente (ad esempio legata alla simbologia della forma a imbuto: strozzatura del tempo, ma insieme ampolla della vita), quasi superiore anche nella perpetua presenza dell’universo. Donna che è appello di tutti gli individui, e ancora inenarrabile nella sua capacità d’esistere. Da qui sarebbe perfino facile procedere verso un principio deistico, ma non sembra questa la sede per attribuire delle responsabilità morali, o tantomeno, religiose. Ci basta individuare la direzione o il terreno su cui opera l’ artista: c’è in lei qualcosa di completamente capito,  e una frangia che riesce impossibile inquadrare, i sintomi di esigenze che premono al di fuori del cerchio in cui stanno le convenzioni, i rapporti sociali, anche gli affetti e i legami consueti. Micozzi ci chiede dunque  solo quella necessaria aderenza, una attenzione di lettura che ci possa permettere di accogliere quanto è disposta a dire con evidente piacere e coinvolgimento. E per questa lettura ci fornisce buoni strumenti, sostenuti dal disegno, dal colore, dalla proporzione. 

I fiamminghi, Michelangelo, l’esoterismo, la pittura di genere, l’assemblaggio, la scultura, tutto è complementare nell’opera di Maria Micozzi, come ogni immagine  racchiude in sé  antico e moderno, arte e “fare”, forma e metamorfosi, incubazione e morte, comunione e separazione. Anche nell’esistenza c’è, per ogni piccola cosa, questo matrimonio e questo divorzio incessante, una marcia che esalta, logora e disillude. E l’artista ha filato, tessuto parola per parola la sua dizione, o meglio la sua gamma formale, riconducendosi a quanto di grandiosamente drammatico ci ha trasmesso l’arte antica. Lontana da ogni accademismo e da ogni didascalia, Micozzi ha saputo rinnovare un messaggio umanista che si era perduto nella débacle delle ideologie, adducendo improponibili velature, i toni di un affresco non ancora impudicamente ripulito, con un accortezza di mestiere che oggi insospettisce più che meravigliare: un andare contro corrente che solleva un campo pieno di presagi e di antiche ritualità. Antinomie aggiunte a una meditazione più distaccata, a una compostezza formale che sono servite a Micozzi per percorrere uno spazio diverso e sorprendente (quasi mai costretto nell’angusta scena incorniciata dal formato standard): il suo è un mare che si calma e diviene flusso sordo, annuncio di altre calibrature esistenziali.

Troppi interessi, legami intesi profondamente con la pittura, con la musica e la letteratura dei secoli passati ci vietano di sentire come remote quelle sorgenti di poesia cui si informa l’artista. Ma anche la realtà, la morale mutata ci hanno fatti accorti di altre posizioni e possibilità; perciò Micozzi, sensibile nel suo lavoro di isolata, rincalza questi avvenimenti piegati ad altre preoccupazioni, a modulazioni nuove di linguaggio.-

Nicola  Nuti 2001

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